Il ricordo del reale
- Lorenzo Gianuario
- 13 nov 2023
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 16 dic 2024
Poesia, ricerca e sentimento nell'opera di Giorgio Morandi

"Il ripostiglio"; studio di Morandi, Bologna.
I
Una coltre di nebbia pervade i tetti di Bologna, svelando, sotto un sipario calato a metà, la Torre degli Asinelli, in un lento pomeriggio autunnale. Un pettirosso solitario, che prima stava immerso nella chioma d’orata di un tiglio come un neo in un tuorlo d’uovo, ora si lancia in un assolo in aria per poi approdare ai piedi di una statua di bronzo, nel mezzo di una minuscola piazza rettangolare. In quest’angolo di città, la quiete è infranta dal brusio dei passanti, dai clacson delle corriere, e dalle risa infagottate nelle sciarpette di lana di un gruppo di ragazzi che gioca con una palla fatta di stracci raggomitolati, legati assieme con lo spago. Due donne, che si stringono nei loro mantelli, si specchiano per un istante nell’opacità della vetrina di una cartoleria, da cui esce un uomo.
È alto, dal viso magro, sulla cinquantina. Scende il gradino e si sistema distrattamente il bavero del cappotto. I suoi pantaloni appaiono impolverati, macchiati con tracce di tintura rossa, e di giallo ocra. Nelle stesse condizioni, le scarpe, ma non sembra curarsene. Sotto il braccio porta un giornale e due fogli di grande formato accuratamente ripiegati, di cartoncino beige e di carta velina bianca, e s’incammina lungo il portico di Strada Maggiore. Procede radente al muro, e lo sguardo schivo lo fa apparire immerso in qualche pensiero. Poi svolta l’angolo su via Fondazza, e a pochi metri, incastonata in un interminabile filare di portici colorati, c’è l’ingresso di un’osteria da cui proviene un vocio concitato: causa ne è l’argomento di cui si discorre; si è in guerra da più di due anni, e adesso le radio danno l’annuncio di una devastante sconfitta dell’Asse in nord Africa; qualcuno con in mano un bicchiere declama il pericolo di un ribaltamento nelle sorti della guerra, mentre tutti si domandano se gli Alleati siano prossimi a un attacco diretto sul territorio italiano.
Ora, quell’uomo si ferma, vi getta uno sguardo all’interno, tira un profondo sospiro, riassetta i fogli che stringe a sé sotto al braccio, e prosegue a camminare. Ora, egli attraversa la strada tenendosi fermo sul capo il cappello di feltro per un’improvvisa folata di vento. Ora scompare dietro un portone, al numero civico trentasei: quell’uomo abita lì. Fa di mestiere il pittore e sta confezionando dei quadri che intende regalare a degli amici.
Il suo nome è Giorgio Morandi.
II
Luigi Magnani, scrittore, mecenate e collezionista d’arte, in una biografia dedicata al pittore bolognese, e dal titolo «Il mio Morandi», pubblicata per la prima volta nel 1982, lo descrive come un uomo umile quanto riservato. Una personalità che emerge chiaramente nella sua indole mite, anche da una piccola selezione di lettere poste a corredo del testo. Dall’insieme ne scaturisce il racconto di una profonda amicizia con un uomo che nella vita ha scansato tutto il superfluo: «niente di troppo», è questo il suo motto. Magnani ci riferisce anche dell’episodio in cui un impresario piemontese giunse a casa di Morandi offrendogli qualsiasi cifra egli avesse chiesto per i suoi quadri: ma il pittore non volle saperne, respinse l’offerta e liquidò l’ospite regalandogli due pregiati acquerelli. In questo modo egli vive totalmente consacrato all’arte. È un liberale – probabilmente più per indole che per una effettiva presa di posizione – totalmente disinteressato ai sommovimenti ideologici del periodo – fors’anche perché dotato di un carattere riservato che di certo ha anche contribuito ad alimentare la leggenda dell’artista eremita, sempre ritirato fra le sue mura domestiche.
È di poche parole, Morandi, il quale esordisce così, le brevi, laconiche righe autobiografiche scritte di suo pugno nel ’28: «Sono nato a Bologna nel 1890. Fin da ragazzo dimostrai grande passione per la pittura, passione che col crescere degli anni divenne sempre più forte, sì da farmi sentire il bisogno di dedicarmici interamente». Mentre sugli anni di formazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna accenna al fatto di non aver trovato la propria «via» attraverso i rigidi schemi impartiti nei corsi d’arte, e che ancor meno di questi, le nuove idee estetiche avanguardiste gli fornissero un orizzonte in cui rispecchiarsi – entusiasmi futuristi compresi. Nelle medesime pagine autobiografiche, si legge: «sentii che solo la comprensione di ciò che la pittura aveva prodotto di più vitale nei secoli passati avrebbe potuto essermi da guida». In quel periodo, infatti, il giovane pittore è attratto dalle atmosfere estemporanee, misteriose e proto-metafisiche che si respirano negli affreschi di Giotto e Masaccio; un’attrazione che presto sfocia in un vero e proprio innamoramento. Da quel momento in poi egli si reca ripetutamente a Firenze, nei luoghi d’arte, dove ne osserva da vicino le opere. Qui, volgendosi con lo sguardo al passato, agli artisti della scuola fiorentina, si accosta alla fonte stessa del plasticismo pittorico.
È ancora adolescente quando nella Biennale di Venezia del 1909 visita l’esposizione della sala francese, con ben 37 opere di Renoir, ed ha il primo contatto visivo con la pittura impressionista. Ma è nel 1910, a Firenze, alla mostra degli impressionisti organizzata da Ardengo Soffici, che ha una vera folgorazione: fra i celebri pittori contemporanei, la sua attenzione si riversa sui quadri di Paul Cézanne, nel quale riconosce quello stesso slancio di ricerca formale già riscontrata nella pittura italiana del Trecento; stavolta, essa appare dotata di un paradigma totalmente diverso di utilizzo del colore: si pensi ai fiaschi e alle damigiane raffigurate su tavole imbandite di frutta tinteggiata di uno squillante verde acerbo; si pensi alle arance rossicce e brune, sparse sulle tavole o riposte con cura a piramide nelle fruttiere del pittore provenzale; evidenti sono le somiglianze con gli Still life realizzati successivamente dallo stesso Morandi.
Allo stesso modo di Cézanne, e con la medesima riduzione geometrica delle figure, il pittore bolognese rende protagonisti dei propri quadri, non dame o cavalieri, santi o nobiluomini, ma un comunissimo vasellame, fatto di bicchieri, piatti, brocche e utensili vari d’uso quotidiano. Sono questi gli umili attori che Morandi mette in azione sul palcoscenico dei suoi quadri. Talvolta, compaiono bottiglie dalla forma allungata, ritte sull’attenti, come gendarmi che presidiano il centro di una piazza; altre volte, la commedia si popola di personaggi in dialogo fra di loro: una caraffa col beccuccio squadrato come un naso di un burbero signore che si volta offeso verso lo sfondo; un decanter di cristallo dalla base ondulata, ornato di un cercino che richiama alla mente un vezzoso girocollo merlettato: nella composizione, ogni elemento, ogni oggetto, si rivela nel proprio ruolo drammatico, dotato di una carica simbolica, emotiva, e poetica – e la protagonista costante è sempre una sola: la luce.
Attraverso la luce, Morandi, può operare una rivelazione visiva della materia, enfatizzandone i volumi, le profondità, e al tempo stesso dà voce a quei personaggi che popolano i suoi drammi: un bagliore languido che si riflette sulla superfice di un manichino, di un portacenere come di una ciotolina; o una luce più asciutta e tagliente, ma pur sempre evocativa, che pervade le composizioni metafisiche come «Natura morta» del 1918. Nelle sue opere, vi sono oggetti in penombra, ed altri più esposti alla luce; alcuni recipienti suggeriscono la presenza di un contenuto – acqua, vino, pane o frutta – oppure un vuoto, una mancanza, una malinconica solitudine.
In questa sua ricerca di armonia nel “piccolo”, che da luogo ad un’ossimorica «monumentalità microcosmica», il suo linguaggio tende all’iconico, quest’ultimo, da intendersi come valore pittorico-arcaico che ci rimanda alle origini, alle premesse stesse della tradizione pittorica. Il recupero di un tale principio, indirizza Morandi verso una precisa prospettiva d’indagine: se è vero che la pittura è arte fatta di segni – iconici, appunto – cioè che rimandano al reale – è allora la realtà del mondo sensibile a costituire l’unico possibile perimetro di ricerca per Morandi, il quale si mantiene sempre fermo sul terreno del figurativo – poiché è il reale a rappresentare per lui il vero emisfero del surreale. Il reale è infatti, com’egli stesso sostiene, il vero luogo d’incontro-scontro e coesistenza tra l’essere e il non-essere: fra materia – spazio – volume. La sua ricerca è allora, allo stesso tempo, indagine sul significato profondo che si cela oltre il dato sensibile; uno sguardo volto con occhio perscrutante a cogliere le vibrazioni concrete, ma invisibili ad un occhio distratto: egli osserva con attenzione contemplativa il mondo a lui dinnanzi; osserva la materia, e la sua assenza, le singolarità degli oggetti, come i loro accostamenti, al fine di svelarne i segreti più profondi.
La predilezione per soggetti umili, e di poco conto, risulta, in tal prospettiva, necessaria per escludere dal riquadro della tela tutto ciò che possa confondere l’occhio dell’osservatore rispetto ai due elementi che egli intende modulare con criterio: colore e forma. Quest’attenzione primaria prestata alla ricerca formale e cromatica costituisce il mezzo attraverso cui veicolare in maniera efficace, tutt’un ampio spettro di sentimenti, stati d’animo, e sensazioni. Al plasticismo delle forme si unisce un raffinatissimo uso del colore, con abbinamenti armoniosi compresi fra tinte lattiginose, tonalità calde color terra, talvolta con deliziose note di blu, in un quadro di sfumature prevalentemente color sabbia, grigi più o meno densi, e rosa opalescenti.
La ricerca da operata, unitamente al volgersi ad un passato ormai remoto, ci mostrano le sue intenzioni: Morandi non intende affatto incatenarsi a quel bagaglio gravoso e inerte di schemi pittorici tradizionali che viene impartito in seno alle accademie, da cui invece egli si discosta sin da subito, e che piuttosto, sottopone ad un processo di «destrutturazione». Vuole piuttosto recuperarne le fonti, vale a dire, le premesse originarie giacenti sotto il peso delle sovrastrutture tradizionali e dei modelli accademici, dalle quali questi stessi schemi e modelli hanno tratto il loro sviluppo, ormai giunto ad un insopportabile irrigidimento. In Morandi, allora, riscontriamo a livello artistico quella medesima Destruktion di matrice heideggeriana che ha plasmato le basi stesse della riflessione filosofica sulla metafisica, nel primo Novecento.
Tutto ciò lo pone in perfetta armonia con i canoni estetici propugnati da «Valori Plastici», la rivista di Mario Broglio, a cui aderisce, e che nei primi anni ’20 dà voce ad un movimento chiamato «Ritorno all’ordine». Movimento sicuramente frainteso dalla critica dell’arte, erroneamente ritenuto in controtendenza rispetto alle avanguardie. Si tratta di un movimento improntato anch’esso alla ricerca, dove ad uno studio volumetrico condotto in chiave proto-cubista, e ad un uso più raffinato del colore ma pur sempre “espressionista”, si unisce il recupero di principi legati alle origini stesse dell’arte pittorica, ormai sepolti nel passato: il «classicismo pittorico», inteso come recupero di una dimensione poetica in un linguaggio figurativo. Grandi nomi del panorama artistico vi aderiscono, tra cui: Carrà, Soffici, Savinio, Severini, e lo stesso De Chirico.
Negli anni del secondo conflitto bellico, nel periodo dei raid aerei su Bologna, tra il ’43 e il ’45, si riscontra un crescendo di tensione emotiva nell’artista, e una variazione tematica in senso pessimista. Svanisce quel senso di armonia dei colori, di stabilità e monumentalità. Subentrano al loro posto delle stonature nel colore. Le superfici iniziano ad irrorarsi di una dominante aspra e giallastra, in parte dovuto al difficile reperimento del materiale necessario per la pittura, che costringe Morandi a fabbricare da sé le colorazioni, alla maniera dei pittori del passato. Ma nella produzione di questo periodo si avverte altresì un senso di emotiva precarietà e fragilità: il tratto si assottiglia, diventa irregolare, asimmetrico, e sembra rispondere al gesto di una mano impaurita, angosciata. Sotto i boati dei bombardamenti e nel dolore di una città martoriata, l’animo dell’artista è messo a dura prova. Siamo nella primavera del ’44, ed egli si ritira nella sua casa di Grizzana, nella campagna bolognese, dove in una lettera indirizzata ad un amico, scrive: «Io lavoro assai poco ed ora non faccio proprio nulla. Mi manca la tranquillità indispensabile al mio lavoro. Ogni giorno gli aerei passano di qui e quando non bombardano si mitragliano tra loro. Comprenderà se in questa condizione si può pensare alla pittura».
Qui, nella sua produzione artistica, oltre alle incisioni e alle Still life in olio su tela, si riscontra una rilevante produzione di paesaggi. Nella paesaggistica di Morandi emerge con ancor più evidenza la medesima tendenza all’esclusione del dettaglio, da sempre volutamente ricercata. Ora, ciò avviene attraverso un metodo alquanto originale: egli osserva il paesaggio col suo cannocchiale attraverso la finestra del suo studio. Così facendo, egli non opera una pittura istantanea, en plein air, ma una pittura che segue un processo creativo “lento” – e questo gli consente di combinare l’osservazione diretta del paesaggio circostante col metodo di lavoro in studio. L'osservazione del paesaggio attraverso un cannocchiale gli consente di mantenere non soltanto un distacco visivo, ma un suo spazio di intimità contemplativa che agevola il processo di elaborazione dell'immagine mnemonica ed emozionale.
L’intuizione, davvero originale, nel metodo di lavoro, risiede in questo: la porzione di paesaggio vista in lontananza, attraverso le lenti del cannocchiale, risulta velata dalla patina generata dalla foschia – fenomeno che con ottiche di elevata lunghezza focale è pressocché inevitabile – tutto ciò elimina ogni margine di dettaglio. Questo metodo, semplice quanto brillante nella sua intuizione, facilita quel processo di formazione dell’immagine emozionale: l’occhio, infatti, resta libero di osservare la realtà, ma senza il rischio di cadere nella trappola tesa dai singoli dettagli, che avrebbero l’effetto indesiderato di inquinare l’immagine mnemonica che si vuole evocare. Così facendo, egli si assicura di mantenere sempre un piede nello scenario reale e figurativo, nello stesso tempo in cui quell'immagine pittorica di cui egli è in cerca viene prodotta dall’esperienza psichica restituitagli dalla sua stessa memoria.
Anche qui, come per gli Still life, l'intento è mostrare il significato insito nell’oggettualità; in altri termini, si tratta di veicolare un contenuto che travalichi il dato sensibile; ciò che non viene captato dalla ragione, ma assorbito a livello inconscio, e restituito poi dalla memoria. È quindi la raffigurazione del risultato di un’osservazione assuefatta, ripetuta, di un oggetto, per arrivare a guardarlo non più con gli occhi analitici della ragione, ma con gli occhi dello spirito. Ecco perché la pittura di Morandi, che è pittura d’avanguardia e di minuziosa e costante ricerca espressiva, non può mai costituire una ricerca finalizzata a sé stessa – come una parte della critica dell’arte ha erroneamente ed insensatamente spesso decretato – ma è orientata alla restituzione di un contenuto, e questo contenuto è puro ed incontaminato: quel che interessa imprimere sulla tela non è il mero dato visivo del reale, bensì il suo ricordo – l’Immagine, addolcita dal sentimento.
Se «poesia» è di per sé sinonimo di ricerca, nel piccolo e nel quotidiano, di tutti quei significati e sfumature che restano invisibili all’occhio comune e distratto, ebbene, la pittura di Morandi può ben dirsi fra le più poetiche mai apparse in tutto il primo Novecento. Per cogliere il messaggio poetico insito nel reale, egli elimina ogni dettaglio superfluo, ogni abbondanza, e scava la realtà con un'osservazione attenta, fino a coglierne l’essenza stessa. Quel «niente di troppo», che è il motto su cui impronta la sua intera vita, si riversa pienamente nella sua arte. La sua metafisica consiste proprio in questo, nella volontà di cogliere l’Idea del reale, cioè la sua dimensione essenziale, percorrendo non le strade del calcolo razionale e scientifico, ma la via del cuore, del puro sentimento quale unico ed autentico afflato dello spirito.



Lo studio di Morandi nella sua casa in via Fondazza 36, a Bologna.
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