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Max Weber: il conflitto fra Scienza e Politica

  • Immagine del redattore: Lorenzo Gianuario
    Lorenzo Gianuario
  • 1 dic 2023
  • Tempo di lettura: 9 min

Aggiornamento: 5 giorni fa


Recensione a «Il Lavoro Dello Spirito» di Massimo Cacciari.

L’epoca compresa tra Illuminismo e Idealismo, segnata dalla Rivoluzione francese e dal trionfo della classe borghese liberale, rappresenta un momento di svolta nella storia della filosofia dell’Occidente; è la fase in cui la bimillenaria tradizione filosofica europea subisce una profonda e irreversibile mutazione, spalancando le porte di un’era di prevaricazione del pensiero scientifico rispetto ad ogni altro paradigma.


Nel suo saggio, «Il Lavoro dello Spirito», Massimo Cacciari scrive che il Sistema della scienza che da quel momento in poi vuole affermarsi è innanzitutto forma mentis, profondamente radicata nel vecchio continente, ma che esige altresì d’essere realizzata: esige cioè di farsi mondo. Ed è un’esigenza connaturata allo spirito stesso che anima la Scienza, il quale non ammette che ciò che da essa venga partorito e progettato resti irrealizzato. Era quindi inevitabile che da questa istanza prendesse il via un processo creativo infinito, che non ammettesse limitazioni, e che quindi mai potesse conciliarsi con una visione del mondo ancorata a verità immutabili legate alla tradizione.

Nella nuova ottica, il mondo non è più il frutto di una creazione unica, originaria, data come sfondo immutabile dinnanzi alle vicende umane: il mondo in cui si muove il nuovo Sistema della scienza si mostra invece alla luce dello stesso scientiam facere: è cioè quel mondo che viene realizzato dalla Scienza; nonché, dalla Tecnica.


Nella sua pretesa di farsi mondo, esso non può prescindere dal contributo necessario del lavoro libero, non costretto da alcuna servitù o comando: la geistige Arbeit, il lavoro intellettuale, “creativo”, espressione di quel Geist che in definitiva altro non sarebbe se non una “forza” che dall’interno dell’anima muove l’umano operare – “crea”. Il lavoro, quando sottoposto a costrizioni e limitazioni, rappresenta invece un freno inaccettabile all’azione creatrice di quello Spirito che s’incarna nel nuovo paradigma scientifico, uno Spirito che si fa strada nell’epoca liberale della grande borghesia come portatore di una promessa: la liberazione completa ed universale del lavoro vivo.


“Il lavoro filosofico, compiutosi nella scienza moderna, non tollera giudici sopra di sé, e perciò esso diviene il paradigma dello spirito dell’epoca. Dunque, la sua forma impone il cammino rivoluzionario verso la liberazione del lavoro tout court. Le forze che re-agiscono a questo destino finiranno necessariamente divorate dal fuoco che si sprigiona dalla bocca, dal logos, del Geist.” – (p.13)


Sennonché, la promessa si vede infrangere nel momento in cui, nell’ambito del dominio borghese, si assiste ad una «scandalosa eterogenesi dei fini», dove il lavoro viene ripiegato nei ranghi e nelle logiche del capitale. La rivoluzione permanente, tanto auspicata quanto necessaria all’auto-realizzazione del Sistema scientifico – e finalisticamente, alla liberazione del lavoro vivo – si è tradotta in una mera rincorsa alla ricchezza materiale, e null’altro che ad un’innovazione circoscritta unicamente gli aspetti tecnico-organizzativi della produzione. Ma basare la rivoluzione permanente sull’illimitatezza della produttività significa non aver compreso che la forza che sottende e che muove il lavoro vivo non è materiale, ma qualcosa di astratto.


«La merce prodotta, nella sua determinatezza, non è che un momento, una manifestazione dell’Assoluto, qualcosa di astratto proprio nella sua materialità; essa non vale per sé, ma in quanto contenente la necessità del proprio superamento» (p.16)


La vera essenza della merce prodotta, allora, non essendo materiale, attiene ad una dimensione immateriale, ovvero, alla produzione incessante di un consumo e del superamento stesso della merce prodotta in un dato momento; nonché, alla produzione di quel desiderio di consumo che la annulla. È questa «la forma più concreta della dialettica hegeliana», dove il mondo è manifestazione e realizzazione dell’infinito.


«Il Prometeo liberato dalla rivoluzione viene di nuovo incatenato all’interno di una gerarchia in cui, per la prima volta nella storia delle civiltà, i valori dominanti (…) sono quelli economici» (p. 15)


Nel richiamare le tesi che furono addotte dalla critica rivoluzionaria, Cacciari sostiene che l’errore che portò a quest’esito negativo fu quello di credere – e di illudersi – che tale “promessa” potesse realizzarsi tramite il Sistema della scienza, come se la Libertà fosse il mero prodotto dello stesso ordine scientifico; è stato errato come il voler «porre il mondo sulla testa»; un «rovesciamento» che ha condotto alla paradossale negazione di quella stessa libertà, e ad un tale disincanto da far venir meno la stesso riconoscimento di legittimazione posto alla base del dominio borghese.


Secondo la stessa critica, allo stesso modo in cui il Sistema della scienza si è imposto in ragione di condizioni socioeconomiche e storiche, la liberazione del lavoro tout-court si realizzerà quando lo stesso lavoro vivo e comandato si renderà conto spontaneamente della sua incompatibilità rispetto al sistema nuovo – oltre che con l’idea stessa di un mondo in perenne creazione.


Ma se da un lato la geistige Arbeit – e segnatamente, il lavoro scientifico – per sua natura si rifiuta di accettare qualsivoglia forma di auctoritas che ponga limiti e regole alla sua espressione – continuando in via autonoma a “liberare” lavoro dipendente e comandato – dall’altro, tale lavoro, una volta liberato, necessita comunque di un riconoscimento formale per trovare una sua dimensione di legittimità, oltre che di mera pragmaticità economica, e tale riconoscimento non può che derivare dalla sfera del Diritto. Difatti, se nell’epoca della grande trasformazione ogni istanza e dimensione dell’uomo trova formale riconoscimento solo nell’ambito della regolazione normativa delle relazioni, per giunta lo Stato si subordina a quest’ordine ormai «divinizzato», e finisce per non riconoscere più nulla al di sopra di sé, fuorché il «contratto».


A tal proposito, Cacciari trae spunto dalle riflessioni di Max Weber (le due conferenze tenute tra il 1917 ed il 1919, dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf ) e sottolinea che sia pur solamente per ragioni pratiche ed economiche, il lavoro vivo può anche ammettere di subordinarsi alla forma del contratto, ma è comunque da escludere che esso possa mai accettare una subordinazione di tipo spirituale. Ecco perché l’Ordine economico dominante necessita della realizzazione di un’Auctoritas che oltre a saper garantire il potere supremo del contratto, permetta altresì «di ottenere dalla moltitudine degli individui il riconoscimento della coerenza del proprio comando con le istanze di libertà che agita ciascuno». Tutto ciò non può prescindere, allora, dalla seconda dimensione della geistige Arbeit: la Politica.


«Il problema per Weber consisteva nel fatto che una forma di Auctoritas doveva potersi comunque affermare, in un nesso intrinsecamente problematico con la gerarchia di valori dell’epoca, certamente dominata dall’Economico». (p.22).


È nell’idea stessa di geistige Arbeit che risiede l’essenza di quell’istanza di libertà che muove ciascun individuo; ed un sistema economico che pone sé stesso come sistema dominante fondato solo ed esclusivamente su di una fitta rete di relazioni contrattuali, non sarà in grado né di frenare l’incedere di disuguaglianze economico-sociali, né di fronteggiare questioni di rilevanza internazionale, ma soprattutto, non sarà mai capace di fornire adeguato riconoscimento a quelle istanze di libertà che ardono negli animi dei singoli.


Tutto ciò genera frustrazione nell’individuo, allontanamento dalla politica, invidia e astio verso il potere – disgregamento. Al lavoro dello spirito della Scienza, deve affiancarsi il lavoro dello spirito che è proprio dell’agire politico. Scienza e Politica devono entrambe tendersi verso un unico fine: la liberazione del lavoro comandato.


«La potenza economica non può esprimersi in tutta la sua forza semplicemente credendo che scienza, tecnica, messe all’opera di masse di lavoro dipendente, possano armonizzarsi grazie a invisibili mani. Senza autorità politica le contraddizioni immanenti al rapporto tra queste dimensioni del sistema ne arresteranno la stessa potenza. (P.25)


Scienza e Politica sono due ordini capaci ciascuno di propria autonomia, imprescindibili per la costruzione di un ordo universalis – persino ai fini della stessa possibilità concessa all’Economico di mantenere il suo dominio sul mondo mediante il capitale. Costruzione di un ordine sociale – di qualsiasi tipo – significa realizzazione di un assetto di valori costituito, che a sua volta è il risultato di una disputa di valori costituente che lo precede (Polemos); viceversa, non vi sarà mai conflitto di valori che non sia dato in vista di un progetto di ordine futuro: Scienza e Politica, come forme fondamentali del lavoro intellettuale – il lavoro dello Spirito – che è sempre portatore di istanze e valori – non possono essere estranee a questo conflitto. Occorre allora comprendere come questi due ordini fondamentali debbano rapportarsi l’un l’altro – in altri termini, bisogna capire in che modo il lavoro intellettuale dello scienziato e quello del politico si debbano relazionare, e se ci possa essere un primato dell’uno al di sopra dell’altro: le riflessioni di Weber ci mostrano una precisa direzione da percorrere.


Weber introduce il suo discorso riconoscendo per prima cosa la necessarietà di quel disincantamento che è alla base dell’affermazione del paradigma scientifico – pur non fornendoci precise argomentazioni: l’unica, forse, è più una constatazione: il volgere lo sguardo alla lunga e frastagliata parabola bimillenaria segnata dalla storia della filosofia in Occidente, mostrerebbe che essa mai avrebbe avuto luogo senza quel progressivo processo di «razionalizzazione», intenso come disincanto della civiltà europea dall’irrazionale, dai greci ad oggi; negarlo, secondo Weber, significherebbe negare la stessa affermazione dell’episteme filosofico.


La presente critica weberiana contiene in sé un appello quasi pedagogico rivolto alle parti più vitali della società, innanzitutto, i movimenti studenteschi e giovanili; è un invito a riscoprire, nella propria formazione personale ed intellettuale, quello stesso processo di razionalizzazione che ha permesso nei secoli di arrivare all’affermazione del moderno paradigma scientifico come dominante. Ma l’appello ch’egli rivolge ai giovani studenti e più in generale all’intera società intellettuale, non è appiattito su una banale critica ai “sentimentalismi” romantici reazionari – bensì, è un richiamo ad un razionalismo che sappia altresì fare i conti coi caratteri con cui la scienza si presenta concretamente ai nostri occhi: lo scientiam facere, nella sua continua ed inesorabile tendenza alla frammentazione del sapere.


È proprio nel guardare alla segmentazione del sapere operata dalla Scienza che Weber attesta l’impossibilità di un ordine universale fondato unicamente su di essa: quell’ideale borghese di realizzazione di un Sistema della scienza capace con le sue sole forze di liberare il lavoro vivo è mera utopia. Quel processo di razionalizzazione storico-filosofica implica, altresì, per Weber, il disincantamento anche rispetto alla scienza stessa, ed in particolare, rispetto all’idea di una Scienza capace di rispondere da sola alle molteplici istanze di libertà socioeconomiche.


«Disincantare il disincanto scientifico, insomma – qui sta il nocciolo originale e paradossale del discorso di Weber (…) Questa strutturazione dell’operari scientifico rende a priori logicamente inconcepibile che esso abbia a che fare con idee di salvezza, di libertà, di felicità» (pp.36, 38)


Nella parola «Beruf», Weber racchiude quell’idea borghese di lavoro inteso come professione, vale a dire, di lavoro operato secondo criteri di razionalizzazione scientifica, e fortemente specializzato, a fronte di quella stessa frammentazione del sapere operata dallo spirito scientifico. Ma qui – nell’idea di professione riportata da Weber – sembrano riscontrarsi anche delle implicazioni attinenti alla sfera religiosa, ed in particolare, all’etica protestante: quel Geist altro non sarebbe che una forza che promana da Dio stesso, l’Assoluto, e che spinge e guida l’uomo nel suo operare.


Da notare, allora, che dal punto di vista weberiano, «Beruf» non rappresenta affatto una condizione compiuta e risolta, piuttosto, pone l’individuo in una costante tensione interiore, tra il suo rispondere alla propria etica professionale, da un lato, e la chiamata di una “forza superiore” che vuole esprimersi tramite il singolo spingendolo talvolta anche a travalicare il particolarismo della sua professione.


Per poter giungere ad una composizione costruttiva di un ordine sociale che sia capace di rispondere alle istanze di libertà socioeconomiche, sia il lavoro scientifico che il lavoro politico devono assumere la suddetta fisionomia di Beruf, cioè i caratteri della professione specializzata, e possono scontrarsi/incontrarsi – e porsi in dialogo fra loro – soltanto su un terreno di «responsabilità». Scienza e Politica, come professioni, si rendono entrambe «mediabili», l’una rispetto all’altra, nel momento in cui si dotano di un’etica di responsabilità: la Scienza, da parte sua, sospendendo ogni giudizio di valore sopra l’oggetto della sua indagine, può tutt’al più formulare ipotesi, ma non decisioni; e la decisione, ovvero, la risoluzione ultima di un conflitto di valori, spetta al Politico. È necessario, quindi, una consapevolezza circa la distinzione tra l’«essere» e il «dover essere»; tra i presupposti elaborati dalla scienza, e le decisioni, che invece sono prerogativa della sfera politica.


Il Politico, in quest’ottica, si muove su un doppio binario, su una doppia etica: da un lato, l’«etica di responsabilità», che lo vincola a tenere in considerazione i presupposti e le ipotesi formulate dalla scienza circa il reale, e dall’altro, un’«etica della convinzione», ossia, la consapevolezza di essere chiamato a delle decisioni che possono basarsi anche su convinzioni non fondabili scientificamente – fermo restando la sua responsabilità di fronte alle scelte compiute.


«Weber comprende come il Politico, se per un verso può collegare può collegarsi al lavoro scientifico sulla base di un’etica della responsabilità, non può non decidere, in ultima istanza, che in forza di convinzioni (...) Pertanto l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità non sono assolutamente antitetiche, ma si completano a vicenda». p.62


È in questi termini che il sociologo tedesco prospetta la composizione del conflitto fra Scienza e Politica; il suo è uno sguardo lucido e sorprendentemente attuale, specie se si considera la tendenza odierna da parte del Politico a ritrarsi da certe responsabilità decisionali, e a relegarsi in una posizione subalterna rispetto ai ranghi del mondo tecnico-scientifico. Egli mette in guardia, all’incirca un secolo fa, la società intellettuale di allora, circa l’importanza di crescere fra i giovani una classe politica “responsabile”, e del rischio per il Politico di essere “divorato” dal Sistema della scienza, qualora nel venir meno al proprio richiamo di responsabilità facesse di conseguenza venir meno la sua stessa ragion d’essere.


Per Weber, allora, processo di razionalizzazione da un lato e presa d’atto di un’etica di responsabilità dall’altro, rappresentano le linee maestre su cui improntare il lavoro intellettuale del Politico alle prese con la modernità – e non da ultimo, le uniche garanzie per il mantenimento dell’ordine democratico costituito, affinché il Politico non mostri il fianco a forze reazionarie e rivoluzionarie sempre latenti, capaci potenzialmente di sovvertirlo.






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Lorenzo Gianuario

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Copywriter creativo e pubblicitario - Giurista - Critico d'arte - Scrittore

 

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